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Per fortuna che c’è il campo, verrebbe da dire, per fortuna che c’è il pallone. Ci voleva una domenica così, speciale nel suo essere sostanzialmente inutile, per rendere giustizia a due veri campioni, fin troppo maltrattati dai loro allenatori e dalle loro società. Pippo Inzaghi e Alex Del Piero lasciano così, come hanno sempre vissuto. Per il gol il primo, per la Juve il secondo. Da signori, da campioni. Serviva il campo per ricordarcelo per sempre, perché il campo non mente mai, a differenza dei presidenti, dei direttori sportivi, dei tecnici.

Ce li spacciavano per bolliti, Pippo e Alex, e qualcuno ci ha pure creduto. Colpa anche di un’anagrafe che, diciamoci la verità, con loro non è più particolarmente generosa. Inzaghi va per i 39 (da compiere ad agosto), Del Piero è un anno più giovane. Eppure bolliti non sono, nemmeno dopo una stagione così, vissuta dietro le quinte.

In modo diverso certo, nella forma e nella sostanza. Perché Del Piero ha giocato 27 partite, Inzaghi solo 7, Alex ha segnato 5 gol, alcuni decisivi e bellissimi, Pippo solo uno, da tre punti. Il capitano della Juve metterà in valigia, prima di andar via, lo scudetto (l’ottavo secondo gli organizzatori, il sesto secondo la questura), il bomber rossonero la rabbia e il rammarico per non aver nemmeno potuto provare a raggiungere e superare Raul come migliore marcatore nelle competizioni europee.

Allegri non l’ha proprio visto, fin dal suo arrivo. L’ha ostracizzato, si è messo tra lui e il Milan, il suo più grande amore, tanto da scegliere di restare a gennaio, quando avrebbe potuto scegliere di andare a giocare e segnare ancora. A Del Piero, con Conte, è andata un po’ meglio. Ha giocato col contagocce, ma ha giocato. Il guaio l’ha fatto Andrea Agnelli, il presidente, con quel comunicato a sorpresa con il quale, con ampio anticipo, ha annunciato la separazione tra la Juventus e il suo capitano.

Uno così avrebbe meritato ben altro trattamento, magari una conferenza stampa congiunta sullo stile di quella con cui Guardiola ha salutato il Barça, un posto da dirigente (che magari arriverà, ma attualmente non risulta sia stato offerto), un busto nello Juventus Stadium. Del Piero è stato di fatto cacciato, e questo non l’avremmo mai voluto vedere.

Così c’è voluto il campo per ridare giustizia a entrambi, celebrati con il gol, specialità della casa. Inzaghi ne ha segnati 288 in carriera, Del Piero 291, 290 dei quali con la maglia della Juventus. Un altra rete, un’altra esultanza davanti ai propri tifosi, prima di andare via. In un giorno speciale, in cui anche Alessandro Nesta, il difensore più elegante che l’Italia abbia mai conosciuto, ha salutato San Siro, con Gattuso, Seedorf e Zambrotta. Una magnifica sinfonia degli addii, in cui però proprio nessuno avrebbe mai voluto abbandonare l’orchestra.

«Una cosa che mi stupisce di questo Milan è quando vedo Gattuso che tira in porta». Basterebbero queste poche parole di Massimiliano Allegri per capire la gioia che l’allenatore rossonero ha mostrato dopo il gol della vittoria contro la Juventus: più dei tre punti, più del prestigio della sfida, poté il nome scritto sul tabellino dei marcatori. Perché Rino è quel giocatore capace di restare in campo anche con il crociato anteriore destro gravemente lesionato, quello che non le manda a dire al fastidiosissimo Poulsen, quello che incita la curva e qualche volta valica quella linea di confine che separa il carattere e l’orgoglio dall’antisportività. Da Rino ti puoi aspettare questo, e ti ha così abituato a vederlo che nemmeno ti stupisce più, ma non ti aspetti certo un gol.

Per contare tutti quelli che ha segnato in Italia bastano le dita delle mani. Sono otto in campionato e due in Champions League, tutti con la maglia del Milan, la squadra di cui è cuore, anima e capitano. Talmente rari da diventare un evento che esalta e quasi commuove tutto il popolo milanista. Perché Ringhio è esattamente il giocatore che non si può non amare: tanto sanguigno e “cattivo” sul campo, quanto buono e naif nella vita di tutti i giorni. Un po’ calabrese e un po’ scozzese, è l’antistereotipo del calciatore: genuinamente tamarro, semplice, bruttino e coi piedi un filo meno che mediocri: potrebbe essere uno di noi, ma non lo è.

Non lo è perché ha qualcosa in più, quel qualcosa che nell’America del Sud chiamano garra e che da noi si traduce con un termine banale e banalizzante come “grinta”. Gattuso ne ha a quintali, molto più della media degli esseri umani, molto più del minimo indispensabile per fare il centrocampista in serie A. Ecco perché, nel suo campo, Rino è un fuoriclasse, un giocatore al di fuori della norma, uno che a modo suo sa fare la differenza, anche senza i gol.

Eppure quella “ciofeca” che passa sotto le braccia di Buffon e quella corsa a perdifiato, devono aver significato qualcosa per lui e per tutta la squadra. Quando segna Ibra non si festeggia così, quando a farlo è Robinho si balla, ma con molto meno entusiasmo. E Gattuso? Lo si mena, che domande, tanto per non fargli perdere l’abitudine a prenderle e darle. Ma sono botte di gioia, quel genere di botte che ti vengono fuori perché non stai più nella pelle e in qualche modo ti devi sfogare. Ne senti il bisogno fisico, molto più di quando segna Ibra, molto più di quando segna Robinho.

Che non fosse la loro stagione migliore lo si era intuito da tempo, ma certo che da Roma e Juventus sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più. E invece le due squadre pagano l’incostanza, le incertezze, le continue crisi di identità che le tengono lontane anni luce da Milan, Napoli e Inter (ma si potrebbe infilare tranquillamente anche la Lazio). La Champions è sempre più lontana, lo scudetto manco a parlarne.

Se poi la Juventus è quella vista a Lecce comincia a essere a rischio anche l’Europa League. Perché la squadra di Del Neri si è fatta mettere sotto dalla quartultima in classifica e non è riuscita a fare mezzo tiro in porta decente contro la peggior difesa del campionato. L’espulsione di Buffon conta poco perché già nei primi dieci minuti, in parità numerica, il Lecce aveva sfiorato il vantaggio in tre occasioni. La vittoria con l’Inter è stata dunque solo una fiammata d’orgoglio, ma la vera Juve non può essere nemmeno quella del Via del Mare.

La Roma riesca a fare di meglio (si fa per dire). Dopo aver perso in casa con lo Shakhtar va a Genova tra i fischi e le contestazioni dei suoi tifosi, ma nei primi 50 minuti fa a pezzi il Genoa. Tre gol, un super Totti che torna a far segnare i compagni e a segnare lui stesso, un gioco fluido e tanta personalità. Poi succede l’impensabile e in trentacinque minuti i giallorossi riescono a prendere quattro gol. Semplicemente assurdo e senza senso, come le scelte di Ranieri, che con un 3-1 da difendere e un centrocampo in palese crisi fa entrare Menez al posto di Simplicio: una mossa che completa il suicidio.

C’è poco da stupirsi dunque se l’allenatore romano e romanista a fine partita non ha nessuna voglia di parlare coi giornalisti, e se qualche ora dopo decide di lasciare l’incarico prima che altri possano scegliere per lui. Ora tocca a Montella, che parte dal -9 sulla Lazio per inseguire un quarto posto che sembra decisamente irraggiungibile.

Se queste sono due tra le squadre migliori del nostro campionato, il calcio italiano non sta troppo bene.

 

Cesarini da, Cesarini toglie. La Juve dovrebbe saperlo meglio di altre, visto che la zona Cesarini l’ha fatta nascere, e visto che nell’ultima settimana si è ritrovata a guadagnare e perdere un secondo posto in classifica nei minuti finali delle sue partite. Il gol di Krasic contro la Lazio aveva permesso l’aggancio proprio ai biancocelesti, la rete di Pellissier a Verona cancella il sogno di ritrovarsi a -3 dal Milan.

Destino opposto per la Lazio, che la settimana scorsa aveva visto raddoppiare il suo svantaggio nei confronti dei rossoneri, e ieri invece l’ha nuovamente dimezzato. Ancora una volta tutto negli ultimi minuti di gioco. A Torino fu Krasic, con l’aiuto di Muslera, a otto secondi dal termine del recupero. A Roma è stato Kozak, con la nettissima collaborazione di Zapata, a sconfiggere l’Udinese al termine di una partita bellissima ed emozionante. Il 3-2 dell’Olimpico è di quelli che riconciliano col calcio e da due certezze in più al campionato: la Lazio non è una meteora e Hernanes è un fuoriclasse.

Chi di Cesarini ha fatto il suo Santo protettore è il Napoli. L’ex mezzala della Juventus rischia seriamente di soppiantare San Gennaro. I gol e i punti pesantissimi ottenuti contro Cagliari, Palermo e Lecce sono arrivati tutti sul filo di lana, così come la rete decisiva per il passaggio del turno di Europa League contro la Steaua Bucarest.

Protagonista del secondo posto del Napoli, a pari punti con la Lazio, è Edinson Cavani, per anni vittima di un terribile equivoco sul suo ruolo in campo. A Palermo giocava da seconda punta, spesso largo sulla fascia, proprio lui che quando aveva l’occasione di trovarsi vicino alla porta difficilmente perdonava. A Napoli hanno capito che è un centravanti, che deve muoversi dentro e fuori dall’area, ma preferibilmente in zone centrali. L’hanno capito e il Matador ha già fatto dieci gol in campionato e cinque in Europa League. Lui ha trovato la sua terra promessa e Napoli il suo messia.

Milan, Lazio e Napoli. Tre squadre nello spazio di tre punti. Un campionato così aperto in Italia non lo si vedeva da qualche anno. Merito delle così dette squadre di medio livello, sempre più organizzate e in grado di trovare campioni a costi relativamente ridotti. Demerito delle grandi, incapaci ormai di competere ai massimi livelli in Europa e un po’ più deboli anche in casa propria. Colpa anche della fortuna, e di quella mezzala juventina degli anni trenta che si chiamava Renato, e che tutti conoscono come Cesarini.

Continuando così, a furia di leccarsi ferite pronte a riaprirsi prima ancora di essersi completamente rimarginate, finiremo la saliva e consumeremo la lingua. Il calcio italiano sta male, anzi malissimo, e non sembrano esserci segnali di guarigione. La vittoria dell’Inter in Champions League (una squadra italiana solo nella ragione sociale e nella dirigenza) non poteva illudere. Alla fine i conti tornano sempre.

Così adesso, mentre in campionato il super-team della tripletta arranca e prende sette punti di distacco dal Milan “sperimentale” di Massimiliano Allegri, in Europa i nostri club rimediano figuracce. Le rimediano la Juventus, la Sampdoria e il Palermo, eliminate dall’Europa League con una giornata d’anticipo sulla fine del turno a gironi, le rimedia anche il Napoli, che a Utrecht pareggia grazie a una tripletta di Cavani e ora per qualificarsi è costretto a battere lo Steaua Bucarest al San Paolo. E visti i presupposti non è affatto scontato che ci riesca.

D’altra parte è da tempo che spagnoli, inglesi e tedeschi ci insegnano come si gioca a calcio. La novità di quest’anno è che abbiamo da imparare anche da ucraini, polacchi, austriaci, cechi, russi. Le prendiamo da tutti e tutti ce le danno. E quando non riesci ad andare oltre due pareggi contro il Lech Poznan o perdi in casa del Metalist Kharkiv non puoi pensare di competere con le squadre migliori d’Europa. E sarebbe ora di finirla con la solita scusa che l’Europa League non è importante. Se davvero le cose stanno così, chi mi spiega perché le altre, dal City all’Atletico Madrid, dal Siviglia al Liverpool, la giocano per arrivare fino alla fine e vincerla?

In Champions le cose vanno un po’ meglio: Milan e Inter sono già qualificate, la Roma quasi. Agli ottavi ci arriveranno da seconde. Roma e Milan sicuramente, l’Inter probabilmente. E questo significa rischiare di incrociare subito Barcellona, Chelsea, Manchester United, Real Madrid e Bayern Monaco. Non esattamente una passeggiata di salute. Il bello è che stavolta, se ce ne andiamo tutti a casa entro marzo, possiamo dire “ciao” al quarto posto valido per la Champions League.

Ci rimane Balotelli, o almeno ci rimarrebbe se non fosse per i soliti imbecilli, quelli che vanno fino in Austria solo per dire che non vogliono la nazionale multi-etnica, quelli che “non ci sono negri italiani”. Mario è fortissimo, e contro il Salisburgo ha segnato un’altra doppietta. Al City ha iniziato così così, anche per colpa di un infortunio, ma ora sembra pronto a esplodere. Ha qualità tecniche e atletiche da fenomeno ma ha un problema. Non il carattere, perché a 20 anni ha ancora tempo per cambiare. No, il problema è il colore della sua pelle, che a troppi non piace, perché lo rende diverso, meno italiano degli altri, e non importa se è nato a Palermo, cresciuto in Lombardia e parla con un accento bresciano che nemmeno Andrea Pirlo.

Allora forse, in questo momento, il nostro calcio rispetta il nostro Paese. Troppo provinciale, troppo poco internazionale, troppo poco europeo.

Ci sono due squadre in Italia, accomunate da sempre dai colori della maglia, e adesso anche da una posizione di classifica difficile e imprevista. Juventus e Udinese, due bianconeri diversi, certo, per storia e ambizioni, ma comunque due società che hanno segnato, nel bene e nel male, la storia degli ultimi 20 anni di serie A. Ora la Juve vede l’Inter da molto lontano (sei punti di distacco dopo appena quattro partite), mentre l’Udinese, fanalino di coda, inizia a fare i conti con quell’ultimo posto a quota zero che fa tanta paura.

Delle due bianconere è proprio l’Udinese quella che se la passa peggio, alle prese con quello che sembra un declino avviato già l’anno scorso, un viale del tramonto lungo e difficile da percorrere. La squadra che ha dato al calcio italiano Marcio Amoroso e Gokhan Inler, e che ha fatto spiccare definitivamente il volo a giocatori come Oliver Bierhoff e Antonio Di Natale, sembra essersi spenta, incapace di ritrovare i risultati, il gioco e i punti che qualche anno fa la portarono fino alla Champions League.

La roulette russa dei Pozzo, fatta di ingaggi di giocatori sconosciuti e cessioni di campioni già formati, sembra essere giunta ora al suo ultimo giro, a quella pallottola fatidica che può bucare uno dei giocattoli più belli che abbia mai visto la serie A. Cosa è successo all’Udinese? Possono le ultime cessioni di Pepe e D’Agostino spiegare un tracollo così netto? E che ne è di Antonio Di Natale, il capocannoniere dello scorso campionato? Perché Alexis Sanchez, il niño maravilla di cui nessuno mette in dubbio le qualità tecniche, non riesce a compiere definitivamente la sua maturazione?

Domande che certamente frullano nella testa di Guidolin e in quelle di tutti i tifosi friulani, che attendono risposte dal campo, magari già dalla sfida di domenica in casa della Sampdoria. Perché ritrovarsi ancora ultimo, a zero punti, dopo cinque giornate di campionato, potrebbe rappresentare una botta troppo dura da assorbire, anche per un pugile che sta orgogliosamente in piedi sul ring della serie A da 15 anni. E anche uno come Guidolin, che ha scalato in bicicletta lo Zoncolan e il Mortirolo, potrebbe trovare questa salita troppo dura per le sue gambe, o magari essere lasciato a piedi dalla sua ammiraglia, alla disperata ricerca di un grimpeur capace di arrivare, se non fino alla cime della montagna, almeno quattro posizioni sopra il fondovalle.

Se vi è mai capitato di trovarvi soli a casa per un periodo più o meno lungo, durante il quale i vostri genitori erano via per le vacanze, allora sapete bene come funziona. Sicuramente avrete cercato di spremere da quelle giornate di tanto agognata e insperata libertà, tutto il succo che potevano darvi. Fidanzati, amanti, amici, feste danzanti, qualsiasi cosa potesse far ballare i topi durante l’assenza del gatto.  Sapete altrettanto bene che, a un certo punto, la festa finisce, e mamma e papà tornano a casa. Bisogna rimettere tutto a posto e tornare a rigar dritti. È stato bello e vi resterà il ricordo, ma ora è finito.

Deve sentirsi più o meno in questo modo il Cesena, re della serie A per tre notti (anche se in coabitazione con l’Inter) e reduce dalla prima sconfitta in campionato sul campo del Catania. E devono sentirsi un po’ così, in fondo, anche Brescia e Chievo, secondi pari merito, ma ben consapevoli che anche quella festa è destinata a finire.

Il padrone è tornato, e i primi a farne le spese sono stati Ventura e il suo Bari. L’Inter c’è, e per la verità non si era mai assentata veramente, ottenendo comunque i risultati, ma ora ha ritrovato anche il gioco. Il 4-0 contro i Galletti, che mai come stavolta hanno dovuto abbassare la cresta, sancisce il ritorno definitivo degli invincibili, che quest’anno possono godere anche delle partenze a handicap di Juve, Milan e soprattutto Roma. La spider di Benitez già corre, mentre i diesel di Del Neri, Allegri e Ranieri stentano a carburare.

Non bastasse il ritorno del Re, c’è pure quello del Principe. Diego Milito ci ha messo quattro giornate a sbloccarsi, e per festeggiare si è voluto regalare una doppietta. Davvero niente male come notizia, soprattutto se abbinata a quella della straordinaria condizione di Eto’o. Come dire, il campionato è ancora lungo, ma sotto sotto è già chiuso. I nerazzurri sono ancora i più forti, e il divario con le inseguitrici sembra addirittura aumentato, complice anche un innalzamento della qualità media nel gioco e nella qualità dei giocatori delle squadre di terza e quarta fascia. Il Milan è sotto di cinque punti, la Juve di sei, e stasera contro il Palermo è già costretta a vincere, la Roma, ancora a secco di vittorie, addirittura di otto. Benitez non poteva sperare in un avvio migliore.

Due giornate di campionato saranno pure poche, quasi nulla in confronto alle 36 che ancora si devono giocare, ma non si può restare completamente indifferenti davanti alla classifica del campionato di serie A. Gli scherzi e gli strascichi del calcio d’agosto e dei primi di settembre regalano al calcio italiano gerarchie completamente stravolte, grandi che soffrono (e perdono) con le piccole (si fa per dire).

Non si può non notare che Roma e Juventus hanno un solo punto, che il Milan, dopo l’esordio col botto ha perso tutto lo smalto che sembrava avere ed è uscito a pezzi da Cesena, che l’Inter, dopo un pareggio senza gol nella prima giornata a Bologna, ha faticato pure troppo per battere l’Udinese a San Siro. Non si può far finta che in testa alla classifica non ci sia il Chievo Verona, unica squadra a punteggio pieno dopo aver battuto il Catania al Bentegodi e il Genoa al Ferraris. Così come non si può ignorare il secondo posto del Cagliari, che guida il gruppetto delle inseguitrici a quota 4 grazie alla straordinaria prova di forza contro la Roma, un gruppetto delle inseguitrici che è chiuso, manco a dirlo, dai campioni d’Italia dell’Inter.

E sarà pure vero che l’estate ancora non è finita e che, di solito, le stagioni che seguono i mondiali sono caratterizzate da partenze, e talvolta finali, a sorpresa. Ma in questo caso i campionati del mondo sembrano avere davvero poche responsabilità. Provate a contare quanti giocatori di quelli arrivati fino alle semifinali giocano in Italia. Sono cinque: Sneijder, Gargano, Perez, Cavani e Muslera, e uno solo di questi gioca in un top-team.

Di strada da fare ce n’è ancora tanta, è vero, ma questo campionato si preannuncia un po’ più incerto dei precedenti. Le grandi torneranno ad essere grandi, tutte o quasi tutte, perché è logico aspettarsi che almeno una ceda e che qualche altra squadra possa approfittare del vuoto di potere infilandosi nella lotta per la Champions League, come l’anno scorso fece la Sampdoria e due anni fa la Fiorentina. E proprio la lotta per il quarto posto quest’anno potrebbe essere ancora più nutrita, con Napoli e Palermo a guidare un plotone nel quale potrebbero entrare però anche le due genovesi, la Fiorentina, e magari qualche altra sorpresa che sarà capace di costruirsi nel corso del campionato. La caccia è aperta.

A 17 anni lo vogliono tutte le grandi d’Europa, e non potrebbe essere altrimenti. Romelu Lukaku è già titolare della nazionale belga e l’anno scorso ha realizzato 19 reti nella Jupiler League con la maglia dell’Anderlecht. È alto 192 cm e pesa 94 kg e nonostante questo è dotato di una progressione impressionante, di grande facilità di dribbling e di un tiro preciso e potente con entrambi i piedi. Real, Inter e Chelsea l’hanno inseguito durante l’estate, ma lui ha scelto di restare a Bruxelles ancora per un po’, e ora bisognerà attendere gennaio per la riapertura della caccia.

Secondo quanto riportato in prima pagina oggi da Tuttosport, su Lukaku si sarebbero inseriti anche la Juventus e il Barcellona, ma il giocatore sembra avere una predilezione per Madrid e per José Mourinho. Non lo preoccupa la concorrenza, conosce le sue qualità e sa di avere il tempo dalla sua, ha voglia di imparare, crescere ancora e migliorare negli aspetti tecnici in cui può e deve farlo, come il colpo di testa. È un ragazzino che ragiona da adulto, la nemesi di Mario Balotelli, a cui assomiglia per caratteristiche tecniche e atletiche, forse ancora più che a Drogba o Adebayor.

Potente, agile, veloce, tecnico, giovane. Lukaku incarna il centravanti che tutti vorrebbero avere ma che pochi possono permettersi. Non tanto per il costo del suo cartellino, quanto per le ambizioni del giocatore, che potrebbe lasciare l’Anderlecht solo per andare a vincere tutto. Per questo la candidatura della Juventus appare decisamente più debole di quelle di Real, Chelsea, Inter e Barcellona, se non altro perché i bianconeri non possono mettere sul piatto della bilancia né la Champions League, né tanto meno Cristiano Ronaldo, Lampard, Sneijder o Messi. Se c’è una speranza di vedere Lukaku in Italia, quella è rappresentata dall’Inter, altrimenti dovremo accontentarci di ammirarlo nei martedì o nei mercoledì di Coppa.

I GOL DI LUKAKU

Torna la serie A, carica di attese, speranze, sogni impossibili da dichiarare, certezze pronte ad essere smentite e quant’altro. Tornano la Roma, il Milan, la Juventus, che aspettano l’Inter nella certezza di chiudere il week-end coi nerazzurri fermi a quota zero e di iniziare una stagione senza José Mourinho. Tornano le altre, dal Palermo alla Sampdoria, splendide protagoniste della lotta per il quarto posto la scorsa stagione, dal Napoli al Parma, dal Cagliari al Genoa e alla Lazio. Tutti coi loro obiettivi, tutti coi loro inconfessabili desideri.

Ci riproverà la Roma a fermare l’Inter. Lo farà con un nuovo imperatore venuto dal Brasile a riprendersi il suo scettro. Lo farà col solito Totti e con un i fratelli Burdisso. Sogna di tornare grande il Milan, che aspetta Ibrahimovic e si coccola un Pato in versione super-ottimista, che vuole scoprire se Allegri è davvero quello che è sembrato a Cagliari e Kevin-Prince Boateng quello visto ai mondiali. Ci crede anche la Juve, che torna al 4-4-2 affidando la panchina a quello che è semplicemente il miglior interprete di questo modulo presente in Italia, che consegna le fasce a Krasic e Pepe, confermando Del Piero e Amauri in avanti, trovando un Quagliarella in più e dimenticando Diego in Germania. Peccato perché il brasiliano avrebbe potuto essere grande protagonista in serie A, se solo ne avesse avuto il tempo.

Dietro c’è chi sa di non poter competere con le quattro grandi, ma sotto sotto spera di potersi inserire nella lotta. Il Palermo ha ceduto Cavani ma è ancora più forte. Lo è perché Hernandez potrà finalmente giocare, e le sue qualità sembrano già superiori a quelle del connazionale più esperto. C’è la Lazio, che ha in Hernanes il giocatore in grado di cambiarle il volto, che potrà contare da subito su Floccari e crede nella maturazione di Zarate, aspettando Roque Santa Cruz. C’è il Genoa che ha investito tanti soldi, e anche molto bene, acquistando Veloso e Rafinha, seguiti da mezza Europa, e puntando fortissimo su Luca Toni.

Ci sono, forse un po’ più indietro, il Napoli, la Samp,  e la Fiorentina. I primi un po’ ridimensionati dalla cessione di Quagliarella alla Juve, i secondi delusi per una Champions League sfumata per questione di attimi, i terzi sconvolti dall’infortunio di Jo-jo e ancora alle prese con la squalifica di Mutu e l’abbandono di Prandelli. E poi ci sono quelle che dalla diciassettesima piazza in su possono solo dirsi soddisfatte: il Parma che riabbraccia Crespo, l’Udinese che è e resta di Di Natale, il Bologna made in Sardegna del nuovo presidente Porcedda, il Catania che con Giampaolo e i gol di Maxi Lopez sogna di volare, il Cagliari che in panchina ha il re delle difese Pierpaolo Bisoli e in campo un attacco da far paura anche alle migliori, il Chievo di Pioli e il Bari di Ventura.

E infine ci sono le tre ultime arrivate, Lecce, Cesena e Brescia, con tanta voglia di restare in A e le capacità per stupire. Perché alla fine, se già sapessimo tutto da subito, che gusto ci sarebbe a seguire un intero campionato?