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Sono 23, in comune hanno l’abilità nel gioco del calcio e un obiettivo: il primo pallone d’oro che unisce i voti di giornalisti e ct delle nazionali. 23, sì, ma solo pochi di loro hanno possibilità concrete di farcela. Cinque, forse sei nomi, ma la lotta potrebbe addirittura restringersi ad appena tre di questi: Sneijder, Xavi e Iniesta.

L’olandese ha vinto tutto nella passata stagione con l’Inter e con la sua nazionale è arrivato fino alla finale dei mondiali. Da protagonista. Ha cambiato il volto a una squadra che in Italia dominava già da anni, ma in Europa aveva sempre stentato. È leader in campo, trascinatore, suggeritore e finalizzatore. Potrebbe però pagare quella finale persa e soprattutto un avvio di stagione non all’altezza delle sue qualità.

Xavi è un autentico fenomeno, di quelli che se non stai attento si vedono poco. Quelli che per apprezzarli devi seguire 90 minuti interi e non solo gli highlights, perché, assist a parte, Xavi fa tanto altro molto meno evidente. Raramente sbaglia un passaggio, una palla persa da lui è un evento, è semplicemente il migliore al mondo nel suo ruolo. Col Barça ha vinto Liga e Mondiale per Club, con la Spagna i mondiali. Quasi mai eclatante, sempre indispensabile.

Iniesta con Xavi ha condiviso gioie e dolori al Camp Nou come con la maglia della nazionale. È mancato, e non poco, nella semifinale di Champions contro l’Inter, era presente, e si è notato, nella finale dei mondiali. Segna poco, ma i suoi gol pesano come macigni. Come quello segnato a Stamford Bridge nel 2009, come quello realizzato a Johannesburg l’11 luglio del 2010. Forse è un po’ meno indispensabile e insostituibile di Xavi, ma quella rete può contare davvero tanto.

La lotta sarà tra loro tre, ma meritano di essere citati, tra i presenti della lista anche Samuel Eto’o, Julio Cesar, Iker Casillas, Arjen Robben e la Scarpa d’Oro Lionel Messi. A loro non basterà una stagione straordinaria per vincere il Pallone d’Oro. Chi per un motivo, chi per l’altro dovranno alzare bandiera bianca e cedere il passo al terzetto delle meraviglie. Eto’o pagherà i pochi gol segnati nella sua prima stagione in nerazzurro, Julio Cesar e Iker Casillas la scarsa visibilità che spetta ai portieri, Robben (vincitore di Bundesliga e Coppa di Germania) le due finali perse, e Messi il mondiale sottotono e l’averlo vinto un anno fa. Manca invece dalla lista Diego Milito, che tra i primi 23 avrebbe meritato di starci.

Sono 10 invece i nominati per il premio Allenatore dell’anno. C’è Carlo Ancelotti e c’è Jose Mourinho. I soliti due verrebbe da dire. Il primo ha fatto double all’esordio in Premier League, il secondo ha fatto tripletta al secondo tentativo italiano. Cosa li divide? Una Champions League. Un vantaggio non da poco per lo Special-One, anche se sarebbe tanto bello veder premiato il Maestro Tabarez.

A Samuel Eto’o il Meazza sarà sembrato il Camp Nou, almeno per una notte, e forse quella maglia nerazzurra l’avrà immaginata blaugrana. O magari sarà stato il clima della Champions League, o l’aver ritrovato quel posto al centro dell’attacco, suo habitat naturale, fatto sta che il Leone è tornato a mordere e graffiare come non faceva da più di un anno.

Un Eto’o così a Milano non l’avevano mai visto. Semplicemente imprendibile, un incubo costante per la povera e derelitta difesa del Werder Brema, di nuovo bomber, come lo era in Spagna e in Catalogna. Di gol ne ha fatti tre, ieri, ma ne avrebbe potuti segnare il doppio, e adesso, con quattro reti, si candida a diventare capocannoniere della competizione. Sono addirittura undici in tutte le competizioni dall’inizio della stagione, contro i sedici realizzati in tutto il suo primo anno in nerazzurro. A lui i tifosi interisti chiedevano tantissimi gol, per dimenticare in fretta Zaltan Ibrahimovic, e invece hanno avuto lo scudetto, la Champions e la Coppa Italia.

Adesso, dopo un anno giocato quasi da terzino, Samuel regala a loro anche quell’urlo a cui aveva abituato Barcellona, e lo fa con una continuità impressionante. Una sola notte da centravanti è bastata a far vacillare le certezze di Benitez e di Diego Milito. Certo, il Principe tornerà ad essere il Principe, ma alla fine cambierà poco perché, al centro o sulla fascia, il Leone continuerà a mordere e graffiare.

Se vi è mai capitato di trovarvi soli a casa per un periodo più o meno lungo, durante il quale i vostri genitori erano via per le vacanze, allora sapete bene come funziona. Sicuramente avrete cercato di spremere da quelle giornate di tanto agognata e insperata libertà, tutto il succo che potevano darvi. Fidanzati, amanti, amici, feste danzanti, qualsiasi cosa potesse far ballare i topi durante l’assenza del gatto.  Sapete altrettanto bene che, a un certo punto, la festa finisce, e mamma e papà tornano a casa. Bisogna rimettere tutto a posto e tornare a rigar dritti. È stato bello e vi resterà il ricordo, ma ora è finito.

Deve sentirsi più o meno in questo modo il Cesena, re della serie A per tre notti (anche se in coabitazione con l’Inter) e reduce dalla prima sconfitta in campionato sul campo del Catania. E devono sentirsi un po’ così, in fondo, anche Brescia e Chievo, secondi pari merito, ma ben consapevoli che anche quella festa è destinata a finire.

Il padrone è tornato, e i primi a farne le spese sono stati Ventura e il suo Bari. L’Inter c’è, e per la verità non si era mai assentata veramente, ottenendo comunque i risultati, ma ora ha ritrovato anche il gioco. Il 4-0 contro i Galletti, che mai come stavolta hanno dovuto abbassare la cresta, sancisce il ritorno definitivo degli invincibili, che quest’anno possono godere anche delle partenze a handicap di Juve, Milan e soprattutto Roma. La spider di Benitez già corre, mentre i diesel di Del Neri, Allegri e Ranieri stentano a carburare.

Non bastasse il ritorno del Re, c’è pure quello del Principe. Diego Milito ci ha messo quattro giornate a sbloccarsi, e per festeggiare si è voluto regalare una doppietta. Davvero niente male come notizia, soprattutto se abbinata a quella della straordinaria condizione di Eto’o. Come dire, il campionato è ancora lungo, ma sotto sotto è già chiuso. I nerazzurri sono ancora i più forti, e il divario con le inseguitrici sembra addirittura aumentato, complice anche un innalzamento della qualità media nel gioco e nella qualità dei giocatori delle squadre di terza e quarta fascia. Il Milan è sotto di cinque punti, la Juve di sei, e stasera contro il Palermo è già costretta a vincere, la Roma, ancora a secco di vittorie, addirittura di otto. Benitez non poteva sperare in un avvio migliore.

Di uscire dai mondiali in questo modo non se lo sarebbe mai aspettato. Diego Armando Maradona abbandona il sogno di alzare la Coppa da ct dopo averlo fatto da giocatore, e lo fa uscendo dal campo umiliato e a testa bassa. L’orgoglio ferito barcolla ma non muore. Così come l’affetto e la gratitudine per i suoi giocatori e la fede in quel modulo offensivo che finora aveva portato l’Argentina a vincere e divertire. Difende Messi, alla faccia di chi lo voleva invidioso della Pulce, e taccia di idiozia chi pensa che non sia attaccato alla maglia della nazionale. Per lui Leo ha fatto un gran mondiale anche se senza un gol, lo guarda mentre piange nello spogliatoio e prova a consolarlo. Così come ha fatto in campo con tutti gli altri giocatori, abbracciati uno a uno dopo il 4-0. Non c’è rabbia nel volto di Diego, dalla sua bocca non escono parole di biasimo ma solo delusione.

Così lui ha saputo conquistare l’affetto e la fiducia dello spogliatoio, così è diventato capitano non giocatore di una nazionale ancora pronta a scendere in campo sotto le sue direttive. Lui non sa ancora che sarà del suo futuro, deve parlarne con la famiglia e coi suoi giocatori, deve discuterne con la Federazione che non l’ha mai troppo amato e che ora avrebbe il pretesto per liberarsene. Una scelta che sarebbe molto impopolare, perché Diego ha dalla sua la squadra e i tifosi, perché Diego è Diego.

Una sconfitta per 4-0 in una quarto di finale contro il mondiale gli argentini non la potrebbero perdonare a nessuno, tranne che a lui. E poco importa se contro la Germania l’Albiceleste non si è mai vista. Non importa se il vantaggio di Mueller è arrivato dopo due minuti e mezzo e se l’unica vera occasione degli argentini nel primo tempo è stato il gol giustamente annullato a Higuain. Non importa nemmeno se Messi ha vagato per il campo per 90 minuti, incapace di imporsi come leader e trascinatore e abbandonato completamente solo dai suoi compagni. Rattrista, delude, ma non importa. Non importa perché in panchina c’era lui, il Pibe de Oro, la Mano de Dios, il più grande di sempre.

La stampa potrà pure riprendere i vecchi ritornelli interrotti dalle ottime prestazioni della squadra al mondiale: dal poco spazio concesso a Diego Milito alle mancate convocazioni di Zanetti e Cambiasso, per concludere con la scelta di portare in Sudafrica il vecchio Martin Palermo. Alle critiche lui ci è abituato, non le ama ma sa conviverci. Male che vada li inviterà nuovamente a baciarlo lì dove non batte il sole. Perché Maradona è così, sempre sopra le righe, mai banale e prevedibile, e allora il mondiale poteva solo vincerlo o perderlo in modo clamoroso. Un’eliminazione per 1-0 o ai calci di rigore non sarebbe stata degna del fuoriclasse che è.