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Ancora tu? Probabilmente Raul e Eto’o non pensavano che si sarebbero incontrati in campo ancora una volta, dopo l’addio al calcio spagnolo di Samuel e dopo quello, con un anno di ritardo, dell’ex capitano del Real Madrid. E invece il destino ha fatto sì che si incrociassero di nuovo, forse nell’anno meno probabile, e per ora con un esito ancora più difficile da pronosticare. Raul e Eto’o, due storie che potevano incrociarsi e hanno finito per scorrere su due binari paralleli per tanti anni, incarnando la sfida infinita tra Barcellona e Real Madrid.

Eppure i due avrebbero potuto rappresentare una delle coppie d’attacco più forti del mondo. Samuel aveva 15 anni quando è arrivato a Valdebebas, Raul ne aveva quattro in più, ed era già la stella merengue che col numero 7 sulla maglia faceva impazzire il Santiago Bernabeu. Troppo giovane il camerunense, acerbo e chiuso da Suker e Mijatovic. Una serie di stagioni in prestito: prima al Leganés, poi all’Espanyol, senza riuscire a esplodere, tanto che al momento di costruire i suoi primi Galacticos, nel 2000, Florentino Perez decise di farne a meno cedendolo al Mallorca.

Lì, nelle Baleari Samuel ha iniziato a diventare grande, mentre Raul a Madrid continuava a vincere, prima al fianco di Morientes e Figo, poi di Ronaldo e Zidane. Poi, nel 2004, la chiamata del Barcellona, stremato da cinque anni senza l’ombra di un titolo: è l’inizio di un nuovo capitolo, aperto subito con un campionato vinto dai blaugrana e con quel coro cantato da Eto’o: “Madrid cabron saluda el campeon”. Dolcissima vendetta per lo scarto di Florentino. Cinque anni straordinari, con 108 gol in 144 gare di campionato, e dieci clasicos contro il Real che l’aveva snobbato e contro Raul, con cui non aveva mai potuto condividere la gioia di un gol. Un conto perfettamente in parità negli scontri diretti: due pareggi, quattro quelli vinti da Eto’o, quattro anche quelli conquistati da Raul, leggermente favorevole a Samuel per quanto riguarda i campionati, 3-2.

L’ascesa di Eto’o è coincisa con il declino (parziale e apparente) di Raul, l’affermazione internazionale del primo con l’emarginazione dalla nazionale spagnola del secondo. Fino a quella partita a San Siro, in cui Raul si è preso la rivincita che cercava, resa ancora più gustosa da un pronostico che lo dava sfavorito come mai era stato in un faccia a faccia con Samuel. Quel 2-5, che per inciso ha portato anche il gol numero 71 del miglior marcatore della storia della più importante competizione continentale, pesa da morire nel bilancio delle sfide tra i due e rischia di farlo anche nella corsa alla finale di Champions League. Quella di stasera potrebbe essere la loro ultima volta sullo stesso campo contemporaneamente, perché Raul ormai va per i 34, e ha più stagioni alle spalle di quante gliene restano davanti. Potrebbe essere l’ultimo capitolo della storia, la fine di una sfida infinita tra due fuoriclasse che avrebbero potuto essere alleati, ma che il destino ha voluto avversari.

L’Inter ce l’ha fatta. È l’unica italiana nei quarti di Champions League, l’unica a portare la bandiera in Europa. Meglio così, perché sarebbe stato veramente brutto festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia senza nemmeno un rappresentante ai sorteggi di venerdì prossimo. L’entusiasmo per la piccola grande impresa nerazzurra non deve però fornire l’ennesimo alibi al nostro calcio, sempre più in crisi di risultati e di gioco.

L’Inter ha eliminato il Bayern Monaco ribaltando la sconfitta di San Siro. L’ha potuto fare grazie alla mediocrità degli avversari e nonostante le follie tattiche di Leonardo e i clamorosi errori individuali di una difesa incerta e poco protetta dal centrocampo. L’allenatore brasiliano, per quasi un’ora, ha schierato Stankovic sulla trequarti e Sneijder interno sinistro di centrocampo, tanto per agevolare Robben nel compito, già di per sé non impossibile, di fare a pezzi Chivu. Sull’altra fascia Ribery ha preso in giro Maicon, mentre Lucio e Ranocchia facevano quello che potevano, al centro di una linea mai perfetta.

Ce l’hanno fatta soprattutto grazie a un Eto’0 magnifico (e non è una novità), che più del gol segnato e di quello fatto segnare, si è dimostrato trascinatore andando a recuperare una palla già persa, mettendo pressione a Breno, costringendolo all’errore e mantenendo comunque la lucidità per vedere il movimento di Pandev per la rete decisiva. Ce l’hanno fatta anche grazie a uno Sneijder ad altissimi livelli (ed è un piacevole ritorno), molto più efficace nell’ultima mezz’ora sulla trequarti che nei primi sessanta minuti a centrocampo, e perché Pandev, in una partita in cui ha sbagliato tutto, ha indovinato le uniche due cose che alla fine contavano per davvero: l’assist per l’1-0 di Eto’o e il gol del 3-2. E ce l’hanno fatta anche perché Coutinho, pur perdendo qualsiasi pallone toccato, col suo ingresso ha avuto il merito di riportare Sneijder nel suo ruolo naturale.

Ma fondamentalmente ci sono riusciti perché sono più forti del Bayern e perché hanno avuto il merito di crederci fino alla fine, aiutati un po’ dalla fortuna e un po’ da Julio Cesar, che dopo aver infilato il secondo errore consecutivo, copincollato da quello compiuto nella gara d’andata, ha parato tutto quello che si poteva parare e anche qualcosa in più.

Ora c’è già chi parla di svolta, e chi si dimentica della lezione che la Roma ha preso dallo Shakhtar, del Milan tremendamente insipido visto contro il Tottenham, e del triste addio del Napoli all’Europa League. Stavolta è andata bene, la prossima chissà, ma iniziare a imparare dai propri errori potrebbe essere un buon punto per ripartire.

Sono 23, in comune hanno l’abilità nel gioco del calcio e un obiettivo: il primo pallone d’oro che unisce i voti di giornalisti e ct delle nazionali. 23, sì, ma solo pochi di loro hanno possibilità concrete di farcela. Cinque, forse sei nomi, ma la lotta potrebbe addirittura restringersi ad appena tre di questi: Sneijder, Xavi e Iniesta.

L’olandese ha vinto tutto nella passata stagione con l’Inter e con la sua nazionale è arrivato fino alla finale dei mondiali. Da protagonista. Ha cambiato il volto a una squadra che in Italia dominava già da anni, ma in Europa aveva sempre stentato. È leader in campo, trascinatore, suggeritore e finalizzatore. Potrebbe però pagare quella finale persa e soprattutto un avvio di stagione non all’altezza delle sue qualità.

Xavi è un autentico fenomeno, di quelli che se non stai attento si vedono poco. Quelli che per apprezzarli devi seguire 90 minuti interi e non solo gli highlights, perché, assist a parte, Xavi fa tanto altro molto meno evidente. Raramente sbaglia un passaggio, una palla persa da lui è un evento, è semplicemente il migliore al mondo nel suo ruolo. Col Barça ha vinto Liga e Mondiale per Club, con la Spagna i mondiali. Quasi mai eclatante, sempre indispensabile.

Iniesta con Xavi ha condiviso gioie e dolori al Camp Nou come con la maglia della nazionale. È mancato, e non poco, nella semifinale di Champions contro l’Inter, era presente, e si è notato, nella finale dei mondiali. Segna poco, ma i suoi gol pesano come macigni. Come quello segnato a Stamford Bridge nel 2009, come quello realizzato a Johannesburg l’11 luglio del 2010. Forse è un po’ meno indispensabile e insostituibile di Xavi, ma quella rete può contare davvero tanto.

La lotta sarà tra loro tre, ma meritano di essere citati, tra i presenti della lista anche Samuel Eto’o, Julio Cesar, Iker Casillas, Arjen Robben e la Scarpa d’Oro Lionel Messi. A loro non basterà una stagione straordinaria per vincere il Pallone d’Oro. Chi per un motivo, chi per l’altro dovranno alzare bandiera bianca e cedere il passo al terzetto delle meraviglie. Eto’o pagherà i pochi gol segnati nella sua prima stagione in nerazzurro, Julio Cesar e Iker Casillas la scarsa visibilità che spetta ai portieri, Robben (vincitore di Bundesliga e Coppa di Germania) le due finali perse, e Messi il mondiale sottotono e l’averlo vinto un anno fa. Manca invece dalla lista Diego Milito, che tra i primi 23 avrebbe meritato di starci.

Sono 10 invece i nominati per il premio Allenatore dell’anno. C’è Carlo Ancelotti e c’è Jose Mourinho. I soliti due verrebbe da dire. Il primo ha fatto double all’esordio in Premier League, il secondo ha fatto tripletta al secondo tentativo italiano. Cosa li divide? Una Champions League. Un vantaggio non da poco per lo Special-One, anche se sarebbe tanto bello veder premiato il Maestro Tabarez.

A Samuel Eto’o il Meazza sarà sembrato il Camp Nou, almeno per una notte, e forse quella maglia nerazzurra l’avrà immaginata blaugrana. O magari sarà stato il clima della Champions League, o l’aver ritrovato quel posto al centro dell’attacco, suo habitat naturale, fatto sta che il Leone è tornato a mordere e graffiare come non faceva da più di un anno.

Un Eto’o così a Milano non l’avevano mai visto. Semplicemente imprendibile, un incubo costante per la povera e derelitta difesa del Werder Brema, di nuovo bomber, come lo era in Spagna e in Catalogna. Di gol ne ha fatti tre, ieri, ma ne avrebbe potuti segnare il doppio, e adesso, con quattro reti, si candida a diventare capocannoniere della competizione. Sono addirittura undici in tutte le competizioni dall’inizio della stagione, contro i sedici realizzati in tutto il suo primo anno in nerazzurro. A lui i tifosi interisti chiedevano tantissimi gol, per dimenticare in fretta Zaltan Ibrahimovic, e invece hanno avuto lo scudetto, la Champions e la Coppa Italia.

Adesso, dopo un anno giocato quasi da terzino, Samuel regala a loro anche quell’urlo a cui aveva abituato Barcellona, e lo fa con una continuità impressionante. Una sola notte da centravanti è bastata a far vacillare le certezze di Benitez e di Diego Milito. Certo, il Principe tornerà ad essere il Principe, ma alla fine cambierà poco perché, al centro o sulla fascia, il Leone continuerà a mordere e graffiare.

Se vi è mai capitato di trovarvi soli a casa per un periodo più o meno lungo, durante il quale i vostri genitori erano via per le vacanze, allora sapete bene come funziona. Sicuramente avrete cercato di spremere da quelle giornate di tanto agognata e insperata libertà, tutto il succo che potevano darvi. Fidanzati, amanti, amici, feste danzanti, qualsiasi cosa potesse far ballare i topi durante l’assenza del gatto.  Sapete altrettanto bene che, a un certo punto, la festa finisce, e mamma e papà tornano a casa. Bisogna rimettere tutto a posto e tornare a rigar dritti. È stato bello e vi resterà il ricordo, ma ora è finito.

Deve sentirsi più o meno in questo modo il Cesena, re della serie A per tre notti (anche se in coabitazione con l’Inter) e reduce dalla prima sconfitta in campionato sul campo del Catania. E devono sentirsi un po’ così, in fondo, anche Brescia e Chievo, secondi pari merito, ma ben consapevoli che anche quella festa è destinata a finire.

Il padrone è tornato, e i primi a farne le spese sono stati Ventura e il suo Bari. L’Inter c’è, e per la verità non si era mai assentata veramente, ottenendo comunque i risultati, ma ora ha ritrovato anche il gioco. Il 4-0 contro i Galletti, che mai come stavolta hanno dovuto abbassare la cresta, sancisce il ritorno definitivo degli invincibili, che quest’anno possono godere anche delle partenze a handicap di Juve, Milan e soprattutto Roma. La spider di Benitez già corre, mentre i diesel di Del Neri, Allegri e Ranieri stentano a carburare.

Non bastasse il ritorno del Re, c’è pure quello del Principe. Diego Milito ci ha messo quattro giornate a sbloccarsi, e per festeggiare si è voluto regalare una doppietta. Davvero niente male come notizia, soprattutto se abbinata a quella della straordinaria condizione di Eto’o. Come dire, il campionato è ancora lungo, ma sotto sotto è già chiuso. I nerazzurri sono ancora i più forti, e il divario con le inseguitrici sembra addirittura aumentato, complice anche un innalzamento della qualità media nel gioco e nella qualità dei giocatori delle squadre di terza e quarta fascia. Il Milan è sotto di cinque punti, la Juve di sei, e stasera contro il Palermo è già costretta a vincere, la Roma, ancora a secco di vittorie, addirittura di otto. Benitez non poteva sperare in un avvio migliore.

Bianconero e nerazzurro a braccetto, in testa alla serie A. Non sarebbe nemmeno così strano, se il bianconero in questione fosse quello della Juventus o, volendo concedere un eccellente avvio di stagione a una squadra abituata al lato sinistro della classifica, quello dell’Udinese. Invece, a far compagnia all’Inter di Benitez, c’è il Cesena neopromosso, quello che in due anni, con Bisoli in panchina, è passato dalla Prima divisione alla serie A, quello che in tre giornate di campionato non ha ancora subito un gol.

Più che una difesa un muro, e davanti due ali velocissime pronte a spiegarsi e volare in contropiede, con un centravanti albanese potente ma certamente non fenomenale, quell’Erjon Bogdani che dopo aver fatto male al Milan, ha mandato al tappeto anche il Lecce. Eredità di Bisoli, che nel frattempo a Cagliari di gol ne ha incassato appena uno giocando in trasferta a Palermo e Bari e in casa contro la Roma, ma anche merito, e non potrebbe essere altrimenti, di Massimo Ficcadenti.

Proprio lui, alle spalle due esoneri, nessuna promozione in serie A e tante critiche, ha spiazzato i bookmakers che lo davano favorito per il poco ambito traguardo del primo allenatore licenziato della stagione. Premio che poi avrebbe comunque vinto Colomba, cacciato dal Bologna ancora prima dell’inizio del campionato, ma resta il fatto che Ficcadenti, ora come ora, ha eccellenti probabilità di mangiare panettone, colomba e magari pure una bella aragosta a giugno.

Ci riuscirà, molto probabilmente, anche Rafa Benitez, ma la sua Inter ancora non piace, almeno non quanto quella di Mourinho. Il fantasma del portoghese è ancora presente nelle menti dei tifosi, se non in quelle dei giocatori, e il confronto col rivale di una carriera potrebbe pesare non poco sulle spalle dell’allenatore spagnolo. Eppure Rafa non sta andando così male. L’Inter stenta, certo, ma è comunque prima in classifica e non ha mai perso. A Palermo, poi, ha dominato fin dall’inizio dell’incontro e solo un Sirigu in giornata super, e un Milito in giornata no, le hanno impedito di vincere con più facilità.

Ma il merito più grande di Benitez è la metamorfosi di Samuel Eto’o, riavvicinato alla porta (come più o meno cortesemente richiesto dal camerunense) e tornato bomber e fenomeno. D’altra parte far fare il terzino a uno così sembra tanto uno spreco, anche se magari ci vinci campionato, Champions League e Coppa Italia.

E l’Inter crescerà, continuerà a farlo, è inevitabile. Come inevitabile è il calo del Cesena, che già mercoledì giocherà su un campo difficile come quello del Catania per poi tornare al Manuzzi domenica ad ospitare il Napoli. Pian piano gli eventi li allontaneranno, e il loro matrimonio è destinato a finire, ma intanto, per almeno una giornata, il calcio italiano potrà godersi questa strana, stranissima coppia.